in “Suoni in corso”, © Mittelfest 2002
Questo breve scritto vuole essere un invito, quasi un appello, rivolto a parte della comunità musicale.
Un invito a riflettere sul ruolo sociale di coloro che, come noi, in quella comunità abitano le periferie, luoghi invisibili alla vista dei più ma carichi di senso.
Centro e motore dell’appello é proprio la necessità di una simile riflessione sul ruolo. Per lungo tempo abbiamo infatti sottovalutato o forse frainteso la nostra posizione. E quand’anche avessimo ragionato sull’utilità sociale del nostro operato, ci si sarebbero presentate soluzioni teoriche sufficienti, forse, a descrivere il ruolo del musicista-creatore nel recente passato, ma certamente oggi non più valide. Non per un ingrato rifiuto dell’eredità lasciataci dai nostri padri, ma per la presa d’atto di un radicale mutamento del contesto sociale.
Due erano le soluzioni indicateci da chi ci ha preceduto.
1. La via del disimpegno, dell’auto-referenzialità: la musica giustificava il proprio essere con l’esserci, divinizzando la Scrittura, la riflessione sul Materiale, il Processo di sviluppo, come in una curiosa fase di paganesimo dello spirito.
2. La via dell’impegno politico. La musica era una fra le tante espressioni possibili di un’ideologia.
Ora la riflessione su un rinnovato impegno credo ci debba portare a rifiutare entrambe, includendo semmai l’impegno politico nella presa di coscienza del proprio ruolo.
Nel primo caso, infatti, si trattava di una Apologia della materia, talvolta paradossalmente sorda alla fisicità della materia stessa e cieca (o forse solo miope) nella relazione con il mondo esterno.
Nel secondo, di una drammatica confusione dei ruoli, grazie alla quale l’adesione ai principi ideologici era troppo spesso ingiustificata garanzia di talento artistico.
C’é un elemento però che rimane comune a quell’esperienza: lo sviluppo di una coscienza antagonista.
Essa é ora più che mai necessaria per contrastare il processo di omologazione, di normalizzazione delle menti, che i nostri padri hanno visto solo nascere. Ora, invece, quel tentativo di obnubilazione delle differenze sta occupando tutti gli spazi dello spirito, lasciandoci poco margine d’azione.
E’ dunque proprio questo silenzioso dramma che la nostra comunità sta vivendo che ci chiama al recupero di un ruolo sociale antagonista, rendendo più efficaci i metodi, più onesti gli obbiettivi.
Dobbiamo mettere mano a questioni di ragion pratica, lasciando da parte un anti-storico snobismo dell’artista, per far nascere alcune indicazioni utili a guidare la nostra attitudine, a non essere agiti dalla nostra professione, bensì ad agirla coscientemente.
Sono tre le indicazioni, alle quali mi sembra opportuno fare appello.
1. Acquisire una maggiore consapevolezza del ruolo.
Il mito dell’”Artista Meraviglioso Selvaggio”, del “Creatore Ignorante e Felice” non può ora appartenerci. Da un processo di auto-indagine l’artista prende coscienza del rapporto con il mondo esterno e del proprio ruolo, che scopre inevitabilmente e fisiologicamente antagonista della Normalizzazione. La presa di coscienza é già un primo passo importante e forse sufficiente alla definizione e alla collocazione del sè nella comunità.
E’ un atto esistenziale che coincide con un atto politico.
2. Libertà di scelta e coerenza.
Il linguaggio dell’artista vive al di fuori del potere temporale, sia esso Accademico o Mercantile. L’Accademia e il Mercato tendono ad ostracizzare chi non si omologa.
L’artista supera l’ostracismo scegliendo i codici linguistici più utili ed efficaci per il proprio stile, senza restrizioni; anche i codici ‘pericolosi’ che in quei due territori sono nati.
Certo, chi cede senza auto-critica al Mercato, si concede alla Normalizzazione. Ma perde la battaglia contro di essa anche chi fa dell’Accademia un obbiettivo, tendendo così ad un modello inefficace ed anzi utile all’Omologazione, perchè catalogato e reso innocuo.
L’Accademia é uno strumento, non un obbiettivo. Essa può essere usata, non ipostatizzata.
L’Accademia si risolve in codici, in strumenti pari ad altri, che come tali possono essere usati liberamente.
Ma il problema non sta solo nella libertà di scelta dei codici linguistici: ad essa va affiancata una coerenza programmatica, cioé la collocazione di quei codici all’interno di un impianto teorico intellettualmente onesto.
Non bisogna mistificare le proprie scelte abbinandole a sovrastrutture teoriche dissociate dal prodotto.
Così, l’artista non può svolgere il proprio ruolo antagonista e contemporaneamente approvare il progetto culturale-politico-economico della Normalizzazione. Come non può dichiararsi “Homo Politicus” e da ciò presupporre il proprio talento.
Abbiamo talvolta assistito in questi anni ad un Teatro delle Rivelazioni Estetiche, fatto da dichiarazioni d’intenti paradossalmente più importanti del prodotto musicale, in un processo di dissociazione fra la teoria e l’ascolto che ha favorito il progetto di omologazione del gusto. Si trattava di sovrastrutture che avrebbero voluto essere utili alla vendita ed alla promozione del prodotto, diventando invece ridicoli strumenti pubblicitari diretti ad un mercato inesistente.
Dunque, facendo seguito alla presa di coscienza di un ruolo antagonista, la libertà di scelta diventa il secondo, importante passo per la definizione del ruolo stesso.
Ma essa non avrebbe valore alcuno se non fosse inserita in un percorso intellettuale il più possibile privo di dissociazioni.
3. Siglare un contratto temporaneo fra etica ed estetica.
L’estetica non vive in subordine ad altre discipline. Nè deriva da esse la propria ragion d’essere.
Abbiamo imparato a nostre spese l’importanza di una creatività libera e non subordinata, quando nei decenni trascorsi fummo costretti a credere che l’impegno politico fosse già garanzia di una posizione estetica, o peggio, di talento.
E’ dunque necessario lasciar l’artista libero, invitandolo semmai a riflettere sul ruolo sociale del proprio operato.
Questa tesi é quella che meglio individua la nostra posizione. Perchè nelle fasi storiche d’emergenza, le sfere dell’etica e dell’estetica vengono temporaneamente e parzialmente a contatto. Esse siglano un contratto a termine, destinato a concludersi con l’uscita dall’emergenza.
Il contratto non ha clausole che trattano del talento, ne’ dei contenuti strettamente musicali: con esso si definisce solo il ruolo dell’artista. L’etica, infatti, agisce suggerendo condizioni apriori; in questi anni la battaglia contro la Normalizzazione ha alcune regole che, se rispettate, rendono la battaglia stessa più efficace: consapevolezza del ruolo, coerenza, libertà di scelta. Ed ha mezzi propri che l’artista può usare: sviluppo di uno spirito critico attraverso la creazione, educazione alla libertà e alla riflessione attraverso l’insegnamento.
Ma é importante ribadire che nel contratto nulla é detto sulla qualità musicale. Esso indica un percorso antecedente e parallelo allo sviluppo del talento e dei contenuti musicali. Si può essere compositori consapevoli del ruolo antagonista, ma privi di qualunque musicalità utile a tradurre la consapevolezza in atti concreti.
Il talento, dunque, é assolutamente necessario per onorare quelle clausole. Dichiararlo, non é superfluo.
Ma il talento senza contratto, oggi, rischia di essere normalizzato.
E’ dunque ora di siglare il contratto, adoperandoci perchè esso possa essere stracciato in tempi brevi.
giovanni verrando, © 2001