“ Per la sua origine biologica, lo stile si situa al di fuori dell’arte, cioè fuori dal patto che lega lo scrittore alla società. Si può dunque immaginare che alcuni autori preferiscano la sicurezza dell’arte alla solitudine dello stile” […]
“ … la poesia moderna – quella di un Hugo, di un Rimbaud, di uno Char – è saturata di stile e non è arte se non in rapporto ad un’intenzione di Poesia”.
Così scriveva R. Barthes nel 1953, in ‘Le degré zero de l’écriture’.
Queste affermazioni, di grande rilievo per la sottile interpretazione dei dati artistici, sintetizzarono lo stato dell’arte così come essa si era presentata dalla prima guerra mondiale fino alla data di pubblicazione di quel saggio.
Al tempo stesso, però, quelle tesi testimoniano la fine di un’era interpretativa. Prendendo spunto da esse, scopriamo che gli sviluppi storici successivi hanno radicalmente modificato il ruolo sociale dell’artista e del compositore contemporaneo. Barthes si era reso conto già allora della crescente centralità dello stile nell’arte moderna. Ma, per l’ insufficienza dei dati storici a sua disposizione, non poteva ancora cogliere la profonda trasformazione che avrebbe rivoluzionato il rapporto tra arte e stile. Oggi, infatti, non c’è arte senza stile: ne’ musica, ne’ poesia.
Invece, Barthes definiva lo stile nel modo seguente:
“una forma senza destinazione, il prodotto di una spinta, non di un’ intenzione”. […]
“Sotto il nome di stile si forma un linguaggio autarchico che si immerge solo nella mitologia personale e segreta dell’autore”.
Egli certamente non sbagliava a sostenere questa tesi nel 1953: ponendo l’accento sull’irrazionalità quasi selvaggia del linguaggio artistico, sembrava voler portare a compimento quell’esperienza iniziata qualche decennio prima con l’Espressionismo. E d’altro lato, indicando lo stile come sede della spinta creativa originaria, Barthes apriva una strada ai giovani artisti di allora, futuri artefici del percorso che avrebbe portato al primato dello stile stesso sulle altre componenti dell’opera.
Ma i quarant’anni successivi alla redazione di quel testo sono stati lo scenario di una vera rivoluzione teorica. Ciò che infatti ci conferma la fine di un’era è soprattutto quella visione dello stile senza destinazione, al di fuori del patto sociale. L’individuazione di un tratto espressivo personale e non riproducibile, la presa di coscienza della soggettività e della solitudine – della quale già parlava l’autore francese – non sembrano infatti più elementi estranei al patto che l’autore stringe con la società, ma diventano anzi i fondamenti del ruolo sociale dell’artista. La solitudine si è frattanto confermata come dato costitutivo e strutturale, radicandosi fino a coincidere con la figura (seppur dinamica e sottoposta a continui mutamenti) dell’artista, ma non per questo essa ha rinunciato al proprio ruolo sociale.
Il concetto di stile ha subito una metamorfosi, da forma senza destinazione a manifestazione della presa di coscienza della propria funzione sociale. In quale modo si è compiuta una mutazione così radicale?
Dopo anni di studio, ascolto ed analisi collettiva della musica del secondo dopoguerra, oggi sappiamo che gli autori dell’avanguardia condividevano innanzitutto un medesimo slancio intenzionale. Molte tendenze sperimentali erano infatti assimilate da una risposta sullo scopo dell’opera d’arte, da un perché, imperativo categorico per ogni coscienza: si dovevano porre in discussione, con ogni gesto, con ogni segno, le sicurezze più ignave della tradizione, alcuni punti fermi della psicologia dell’ascolto, cristallizzatisi nei secoli. Il singolo autore, sentendosi parzialmente rassicurato da questo condiviso e quasi tacito fine del proprio lavoro, poté spostare la propria attenzione dal perché al come, dallo scopo al metodo.
L’interdizione di materiali linguistici storicizzati, garantendo alla creazione uno scopo ed una parvenza di rigore apriori, fece prevalere una critica del metodo a scapito dell’inchiesta sull’intenzione. O, per meglio dire, fece coincidere il perché con il come dell’opera. Talvolta l’intenzione poetica si esauriva nella polemica con la tradizione, traducendosi materialmente in uno studio sul processo di sviluppo del materiale musicale. In una sempre crescente prossimità dello sguardo sui dettagli dell’opera, l’autore trovava giustificazione del proprio operato solo nell’elaborazione compositiva: l’intenzione poetica coincideva con l’indagine sul metodo e, viceversa, il discorso sulla tecnica diventava il discorso sull’estetica. In un eccesso di autoreferenzialità, l’opera d’arte trovava giustificazione nell’atto del compiersi, di modo che, per alcuni decenni, l’autocritica sullo scrivere sembrò sospesa a vantaggio di una riflessione sul metodo.
Il primo autore che manifestò una presa di coscienza del problema fu P. Boulez, in “Penser la musique aujourd’hui” del 1963. Egli, nel capitolo “Necessità di un orientamento estetico”, gettò nel dibattito musicale una tesi di grande importanza storica. C’era bisogno, diceva Boulez, di una presa di coscienza del compositore, di un atto estetico originario in grado di fondare e giustificare la scrittura.
A distanza di un terzo di secolo però, il suo richiamo ad un orientamento estetico ci appare necessariamente incompleto. Quel tipo di orientamento bouleziano infatti, fondava sé stesso innanzitutto sull’individuazione di una o più tecniche compositive. Si trattava ancora una volta di uno sguardo autoriflessivo e autoreferente, frutto del pensiero musicale allora dominante.
La questione teorica rimaneva dunque irrisolta: può il compositore offrire una giustificazione sociale, vale a dire non solo tecnico-musicale, della propria attività? E di conseguenza, qual’è il ruolo sociale del compositore?
Senza dubbio sono questioni che hanno attraversato da sempre la musica occidentale. Ma nel secondo Novecento, di fronte allo sviluppo della comunicazione di massa, esse assumevano proporzioni drammatiche. Si sarebbe trattato infatti di cercare una giustificazione valida per l’ espressione libera del sé, o meglio, per quell’arte che faceva dell’autoreferenzialità e della ricerca linguistica le categorie della libertà d’espressione. Invece, l’attenzione al processo di sviluppo – cioè la stessa autoreferenzialità – sembrava mascherare una fuga dalla domanda sul senso. L’interrogativo sulle ragioni ultime della scrittura era diventato indispensabile per la sopravvivenza della nuova musica. Essa necessitava di nuove risposte, di nuove giustificazioni sociali. Non bastava più il richiamo alla definizione di una tecnica. Si è creduto di rispondere al perché fondando la ragione dello scrivere sullo scrivere stesso, sul metodo e sul confronto polemico con il passato. Al contrario di epoche nelle quali il linguaggio artistico colmava la propria idealità e la propria ragion d’essere nella celebrazione della divinità, ovvero la musica si vantava d’essere espressione diretta della Volontà schopenhaueriana, ora si fuggiva la ricerca di giustificazioni ultime al proprio agire. La musica fondava il proprio essere sull’esserci. E l’autore, osservandosi all’opera, sembrava innanzitutto nascondersi a sé stesso, temendo di vagare incessantemente in cerca di un perché, di un atto di fede che credeva erroneamente perduto.
Oggi invece non dobbiamo ne’ desideriamo più fuggire, e vogliamo ridiscutere il senso ed il metodo del nostro agire.
Negli ultimi decenni ci siamo sempre più accorti che la polemica contro la tradizione, l’intenzione distruttiva che la caratterizzava, non sono più sufficienti per dare all’opera una validità oggettuale. Questo atteggiamento ci appare ancor più impotente di fronte al radicale mutamento dello scenario teorico. Sono infatti cambiati gli antagonisti: non più la tradizione conservatrice ma la normalizzazione delle masse. In altri termini, gli impedimenti all’espressione libera del sé non si manifestano più nel passato ma vivono nel presente.
Così, l’attualità dei contrasti ed il ruolo sociale marginale dell’artista fanno sorgere da più parti una prima indicazione: il compositore, dicono musicisti e teorici, deve avere una coscienza antagonista. Esiste cioè un potenziale antagonismo nel lavoro dell’artista, tale da restituire l’atto della creazione alla sfera della ‘ragion pratica’. L’attitudine allo scontro frontale, alla resistenza intellettuale, fu già cara ai compositori negli anni cosiddetti della contestazione. Ma noi vogliamo rivedere quell’impostazione teorica, che praticava spesso un’etica subordinata alla politica.
Quest’ultimo è un passaggio fondamentale per una definizione dello stile oggi. La coscienza antagonista infatti non coincide con la coscienza politica: semmai la seconda è contenuta naturalmente nella prima come parte di un organismo più vasto ed importante. Per l’artista, l’antagonismo non è rappresentato in primo luogo dalla lotta di classe o dalla disputa per una equa distribuzione del potere. Ciò che oggi rende efficace il lavoro dell’artista è l’impegno come dubbio, come coscienza critica in seno alla società. Il ruolo dello stile, quella stessa solitudine strutturale, impongono all’opera una imparzialità funzionale: essa cioè può e deve diventare utile allo sviluppo dello spirito critico. Ciò dunque non ha nulla a che vedere direttamente con la politica (o con le scienze sociali), ma piuttosto la precede, creando un impianto teorico che prevederà l’impegno sociale come conseguenza naturale indiretta. Del resto, il dubbio non fa parte innanzitutto della sfera politica quanto della sfera della ragion pratica, considerando la prima fisiologicamente subordinata alla seconda.
Dunque, antagonismo come dubbio. Il compositore, trovandosi di fronte al processo di normalizzazione degli individui, processo necessario al mercato produttivo e messo in atto dalla comunicazione di massa, non può non porsi il problema dell’efficacia. Posta di fronte all’acriticità dei messaggi massificati, l’opera d’arte può infatti stimolare lo spirito critico dei singoli. Essa diventa antagonista se si oppone alla normalizzazione (e, per la stessa ragione, essa diventa morale?). L’impegno artistico assume la forma della disobbedienza costruttiva, l’eccezione creativa quella del rifiuto critico.
Tutto ciò accade però solo nel caso in cui l’opera acquisti quella forza d’impatto sulla comunità che è oggettivamente mancata alla musica delle avanguardie. Ci troviamo di fronte così ad un altro grave malinteso, prodotto per lo più da quella tensione verso l’esserci. Ancora oggi, sebbene meno frequentemente che nei decenni trascorsi, si persegue un genere d’opera che scatena nella comunità occidentale un graduale sentimento di ‘sospensione’, quasi di ‘disimpegno’ nei confronti dell’opera stessa. Questo è rimasto un nodo problematico non risolto, per quella generazione di musicisti che ha anteposto un’ideologia (qualunque essa fosse, sia che si trattasse di ideologia politica o di apologia del processo di sviluppo) alla prassi. La questione andava forse presa in esame innanzitutto attraverso una prospettiva estetica: l’opera musicale non può avere nessuna funzione sociale se non rifonda un’appropriata natura comunicativa. In questa operazione però non dobbiamo confondere la tecnica con il senso, ripetendo quell’errore, quel comportamento che abbiamo definito apologetico della materia. Al contrario, dobbiamo interrogarci sul senso della tecnica. E’ necessario cioè che l’opera offra delle chiavi di lettura che consentano una dialetticità intorno all’opera stessa ed una relazione con essa. Senza queste chiavi, ogni attenzione al ruolo sociale del prodotto artistico risulta superflua. In altri termini, è lodevole ma non sufficiente educare i giovani all’ascolto della musica contemporanea nelle scuole, o gli operai nelle fabbriche. Questo non sarebbe che un passo successivo alla presa di coscienza del ruolo sociale dell’autore (e quindi, come vediamo, ad una presa di coscienza dello stile come necessità), così come l’impegno politico non è altro che la conseguenza dell’assunzione di uno spirito critico.
E’ peraltro probabile che l’indirizzo politico dettato dall’impegno come dubbio, sia il medesimo di quello perseguito dai compositori degli anni ‘60 e ‘70, poiché il dubbio come antagonismo non può condividere la pratica della normalizzazione. Ma la lotta politica, per l’artista, non è che una conseguenza priva di necessarietà: essa prende eventualmente le mosse da un progetto artistico tout court. Per l’atto della creazione, questi sono fattori più importanti di qualunque battaglia condotta per la conquista di un potere sociale reale.
Ripartiamo allora da R. Barthes, per capire come attualizzare questo progetto. Undici anni dopo quelle dichiarazioni, nel 1964, egli ci spiega che la lingua è
“un puro oggetto sociale, insieme sistematico delle convenzioni necessarie alla comunicazione”.
Appare immediata la presenza di una forte analogia fra il linguaggio parlato e quello musicale. Infatti, descrivendo più avanti il sistema della lingua parlata come un contratto collettivo – così come già Saussure la intendeva – Barthes sembra involontariamente riferirsi anche al linguaggio tonale. Che cosa era infatti la tonalità se non un contratto collettivo reiterato al quale i singoli autori facevano riferimento, tentando con i diversi segni, modi d’espressione, etc., di modificarne la struttura a proprio uso e vantaggio?
Per essere più precisi, dobbiamo notare che nella precedente domanda è sottintesa la più importante differenza esistente tra il linguaggio artistico, inteso come contratto collettivo, e quello comune. Barthes e Saussure infatti affermano che l’individuo da solo non ha gli strumenti sufficienti a modificare la lingua parlata quotidianamente. In quanto nata da un accordo della collettività, il singolo deve ad essa sottomettersi, nel momento in cui voglia comunicare con i suoi simili. La creazione artistica, invece, opera in maniera diametralmente opposta, sfruttando proprio quella potenzialità innata nell’autore, che lo rende capace di indirizzare l’evoluzione della lingua.
Ma al di là di questa evidente differenza, vi è un dato importante comune ai due mondi: la necessità di costituire un contratto in funzione della comunicazione rimane invariata in entrambi i casi. Ed è rimasta immutata in ogni epoca trascorsa.
Se con la perdita dell’universalità nel linguaggio della musica occidentale è venuta meno l’esigenza di condividere gli stessi mezzi, non altrettanto possiamo infatti dire della contrattualità. La musica del dopoguerra, non dimentica della necessità di questo patto collettivo, proponeva un modello di contratto autoreferente. Questo contratto però non fu mai siglato da entrambe le parti: nel Novecento si è vissuta una diffusa assenza di contrattualità fra l’ autore ed i fruitori dell’opera. Certo, l’assenza di un patto fra l’ autore e l’uditorio sembra essere nata da un’incomprensione epocale. Le avanguardie avrebbero voluto impostare una rivoluzionaria forma di interazione: si suggeriva al referente di non cercare durante l’ascolto oggetti e segni nati da una convenzione, da un accordo reciproco. Il patto avrebbe dovuto ufficializzare la ricerca dell’autoreferenzialità per entrambe le parti: nell’opera, sia l’autore che il fruitore dovevano cercare sé stessi. Ad entrambi era richiesto un atto di profonda introspezione.
Numerose sono le ragioni che resero difficile l’attuazione di quel patto: una paura della solitudine che coglieva il fruitore dell’opera di fronte all’abisso della potenzialità creativa, la stessa autoreferenzialità del linguaggio, etc. Ma ciò che più importa e più colpisce l’attenzione di noi contemporanei è la distanza che si venne a creare fra l’intenzione relazionale, dichiarata dall’autore in quel tipo contratto, e gli effetti ottenuti. Solo talvolta il fruitore cercò sé stesso nell’ascolto e portò a compimento quel processo di introspezione descritto nelle clausole contrattuali. Egli, piuttosto, sospese spesso ogni forma di giudizio sull’opera, non accettando di siglare il patto propostogli dall’artista e rendendo l’opera d’arte un oggetto socialmente inutile.
Pur sottolineando l’importanza capitale di quel tentativo, che generò risultati comunque fondamentali per la storia della musica, alcuni dei quali raggiunsero oltretutto gli obiettivi dichiarati, dobbiamo al tempo stesso prendere atto di una diffusa inefficacia di quel tipo di contratto. L’autoreferenzialità, intesa come categoria estetica fondamentale e generalizzata, come linea guida per la musica di allora, non raggiunse i risultati previsti.
In questo processo di progressivo allontanamento dei risultati dalla volontà dell’autore, degli effetti dalle condizioni contrattuali, una causa si rivelò decisiva: quell’intenzione poetica soffrì sempre più il confronto con il fenomeno dell’aggregazione e normalizzazione delle menti, cresciuto in quegli anni e stimolato dalla ricerca del profitto e dalla comunicazione di massa, fenomeno che si è definitivamente affermato nell’ultimo trentennio.
E’ per questa ragione che quell’aspetto della contrattualità va ora rinnovato. Il compositore, se vuole avere un ruolo sociale definito, deve proporre alla società un nuovo patto. Nella musica d’oggi, in quella musica che prevale la nozione di stile, ogni opera rappresenta un diverso tipo di contratto che l’autore stringe con l’uditorio, e – quel che è più straordinario – non esistendo ne’ universali ne’ apriori linguistici specifici, il contratto viene siglato solo al momento della presentazione dell’opera: esso si attua con la fisicità dell’ascolto.
A questo punto si impone però un chiarimento. Con le argomentazioni qui esposte, noi non siamo affatto alla ricerca di una musica che incontri un acritico consenso di massa. Al contrario, la poetica che stiamo delineando cerca di opporsi alla massificazione della cultura, soprattutto quand’essa corrisponda a quel processo di normalizzazione delle menti. Ed al tempo stesso, vuole prendere le distanze da quell’atteggiamento accademico ed istituzionale che ha pervaso la musica contemporanea degli ultimi decenni, censurando la libera espressione in nome di una malintesa dignità della scrittura.
D’altronde l’assenza di vincoli è una necessità assoluta e non potrebbe essere altrimenti, poiché essa è la sola condizione possibile per la ricerca musicale odierna – a qualunque genere appartenga –: la creazione musicale fa parte di quell’esiguo gruppo di strumenti, poveri di potere ma forti della propria consapevolezza, utili a creare piccole lacerazioni nella rete intessuta dalla legge della normalizzazione o dell’accademia. Considerata l’organizzazione della società contemporanea, l’arte può e deve far propria la scelta dell’antagonismo.
E se la musica è libera espressione ed antagonismo – entrambi categorie che implicano una relazionalità –, allora il recupero di una contrattualità è un dover-essere. Quella autoreferenza contrattuale, tramutatasi in distanza, in sospensione, e diventata poi attitudine accademica, ha paradossalmente fatto il gioco del mercato produttivo più abietto, poiché essa non è stata più in grado di incidere sull’evoluzione dello spirito critico epocale.
Se torniamo per un attimo alle frasi di R. Barthes, con le quali abbiamo aperto questo capitolo, possiamo adesso affermare che l’elaborazione di uno o più stili, intendendo con essi anche la costruzione degli strumenti di lettura utili a comprenderli, è l’atto più diretto che l’artista può compiere nei confronti della società. Lo stile è all’origine di quel contratto che viene siglato con l’ascolto. Lo stile (o gli stili) di un autore giungono a trascendere l’autoreferenzialità.
Ma la definizione dei propri idiomi stilistici non passa solo attraverso la riappropriazione di una tecnica, appunto. Lo stile è anche la presa di coscienza del proprio ruolo sociale, è il primo gesto artistico che consente la relazionalità. Con questo gesto il compositore è inevitabilmente gettato nella disputa teorica contro la normalizzazione: egli diventa un naturale avversario dell’assimilazione delle menti ad un unico modello, antagonista della comunicazione di massa così come è oggi intesa.
Donde la necessità di una maggiore consapevolezza dell’artista. La libertà d’azione che viene oggi offerta ad ogni autore, implica una presa di coscienza del proprio linguaggio, un’adesione più rigorosa dello scrivere al sé estetico. L’arte è adesione al sé mediata dal contesto, senza che essa coincida con un processo di adeguazione: semmai funge da stimolo per un consenso critico.
Quest’ultima è però una tesi che le nuove generazioni condividono con le avanguardie del dopoguerra. E condiviso è anche il processo di individuazione di uno o più stili come atto originario dell’artista, processo nato proprio nella prima metà del Novecento. La disputa tra i due mondi musicali, dunque, risiede altrove: essa riguarda il metodo per generare quell’attitudine critica e le scelte che precedono la nascita dello stile. E’ la disputa fra l’accademismo e la nuova musica. E, da quella disputa, nascono due domande: come rendere efficace il messaggio artistico-musicale?
Come renderlo socialmente utile e sufficientemente antagonista?
Prima di rispondere dobbiamo però risolvere un ulteriore nodo problematico che dimora in quelle domande stesse. Esse escludono manifestamente, infatti, un atteggiamento inconscio, forse ingenuo ed anti-storico, del compositore nei confronti del contesto sociale. Seppur riconoscendo che la domanda sul ruolo sociale della musica colta, sull’utilità della scrittura musicale nel mondo occidentale, non sia in sé perennemente valida e giustificata, vogliamo però affermare che quella domanda vede modificata la propria importanza dal contesto storico nel quale si colloca. Le ‘ragioni del disimpegno’ potrebbero essere valide se il contesto sociale non obbligasse il compositore a recitare un ruolo più che marginale, se non rendesse la sua opera inefficace nei confronti del sistema, se quella richiesta di autoreferenzialità non fosse passata dallo stato di ricerca d’avanguardia a quello di sterile accademismo. Supponendo per assurdo che il compositore fosse oggi soggetto integrato ed integrante il sistema di potere politico ed economico (fenomeno per noi impensabile, ma verificatosi in altre epoche e condizioni storiche), che il suo messaggio fosse accettato dal sistema proprio nella sua natura di stimolo critico interno al sistema stesso ed utile ad una sua evoluzione, la domanda sull’impegno si rivelerebbe allora inutile.
Questa però, ça va sans dire, non è la nostra situazione.
Qualunque messaggio artistico, se prodotto da un soggetto il più possibile libero da vincoli, è per sua natura, oggi, antagonista sia del processo di normalizzazione che dell’accademismo. E l’antagonismo porta con sé (consciamente o inconsciamente nell’attitudine dell’artista, poco importa) la necessaria questione dell’impegno: quel messaggio cioè chiede di diventare strumento efficace contro quelle due attitudini, pena la sua sopravvivenza e la sopravvivenza dello spirito critico.
L’impegno non può e non deve più passare attraverso un’ideologia politica apriori. Esso nasce nella musica stessa, nell’ambito della scrittura, nel vissuto dell’artista, nella spinta biologica che lo muove, nella mediazione di quest’ultima con il contesto, nella nascita dello stile. Solo in seguito a tutto ciò l’impegno si rivela come tale aprendosi all’esterno e traducendosi in efficace e dirompente messaggio antagonista.
L’impegno nasce dall’autenticità dello stile. Questa è dunque la risposta alle domande che avevamo lasciato in sospeso. Lo stile è efficace se aderisce totalmente al soggetto, alla sua evoluzione critica e tecnica, alla sua solitudine. Non ci sono interstizi, fra arte e stile. Esso è autentico se fonda sé stesso su di un rapporto fisico fra il soggetto creatore e l’oggetto artistico. Se non cede eccessivamente ne’ alla mediazione che il contesto storico impone, ne’ ad una anacronistica voglia di autoreferenzialità.
L’autenticità dello stile coincide con il vissuto del soggetto. La musica d’oggi infatti non nasce dall’universalità di un sistema vincolante, ma, come ben sappiamo, vive di norme teoriche generali e lascia ad ogni autore la libertà di definire le proprie norme specifiche. Essa si fonda sull’esperienza dei singoli, sulla loro differente ricchezza e tradizione, sulla loro apertura nei confronti della propria e delle altre tradizioni. Ora, l’opera coincide con la visione dell’artista e viceversa. Essa lo rappresenta poichè ne attualizza l’apertura verso l’esterno, l’elaborazione personale della tradizione, la spinta biologica. Ed il dato ultimo di questo processo è lo stile, mediazione spontanea fra quella spinta biologica (già individuata da Barthes) e le ragioni del contesto storico.
Queste dunque ci appaiono le risposte più concrete ed efficaci alle domande sul senso ed il ruolo sociale.
La solitudine ribadisce l’importanza dello stile come strumento di lettura, il valore cioè di quella mediazione culturale spontanea che nella gerarchia degli elementi della creazione è seconda solo al talento. Essa, infine, sottrae ulteriormente l’opera d’arte al rischio della distanza fra intenzione e risultato, al rischio dell’accademismo sterile, ed arricchendosi del contributo critico offertole dall’attitudine all’eccezione, rifiuta l’idea post-moderna dell’arte come sola immagine, segnale di una crisi profonda della pur civilissima Europa e delle culture che ad essa si riferiscono.
giovanni verrando, © 1998